Se ne sono accorti pure sul quotidiano cattolico Avvenire, con l’articolo di Lucia Capuzzi del 21 marzo scorso significativamente intitolato: “I militari per strada: il vero rischio è che poi ci restino”. La cronista osserva che “a preoccupare è l’impiego disinvolto della narrativa bellica da parte dei governi per descrivere l’attuale emergenza (…). La questione non è meramente linguistica. Di fronte all’estendersi rapido dei contagi, i vari esecutivi del mondo stanno adottando misure proprie di una situazione di conflitto, dalla chiusura allo schieramento dell’esercito. Il coronavirus, oltretutto, arriva in un momento di infatuazione collettiva verso l’autoritarismo populista, considerato più efficiente nella risoluzione dei problemi” e, citando il politologo statunitense Scott Radnitz, evidenzia come “Il punto è che quando un governo sviluppa nuove forme di controllo sociale, non gli è sempre facile tornare indietro”.
Alcuni giorni prima, il 18 marzo, persino sul demo-liberale Huffington Post, in un intervento della politologa Nadia Urbinati, intitolato «Non arrendiamoci a “tacere e obbedire”» era possibile leggere: “Non dovremmo vergognarci di mettere in dubbio questa logica di un’escalation della repressione (…). Più delle norme emergenziali, si deve temere l’espansione di questa mentalità dispotica, che vorrebbe neutralizzare dubbi e domande. Tacere e obbedire”.
Nonostante questi dubbi, poche righe sopra però era pure possibile trovare l’acritica riproposizione dell’illusione democratica per cui “la responsabilità è l’arma che i cittadini nelle democrazie costituzionali hanno e che le norme, anche quelle che regolano un’emergenza come questa, presumono – non ci sono altre misure. Non si conoscono scorciatoie. Non c’è posto per la repressione militare e lo stato di polizia. In aggiunta, la nostra responsabilità non è illimitata e non può essere contrastata con la minaccia di maggiori repressioni”.
Al contrario, invece, le dinamiche bio-politiche di queste settimane mostrano semmai l’esiguo scarto tra democrazie liberali ed illiberali, dentro uno scenario che in molti hanno definito orwelliano: nel momento in cui la salute diventa “ragione di Stato”, la risposta è sostanzialmente ed analogamente liberticida. Per cui appare davvero paradossale l’indignazione dei democratici italiani per le misure di Orban, Trump o Duterte, quando già viviamo in un rafforzato stato di polizia, con i militari in servizio permanente, in cui ogni libertà individuale è sospesa e vigilata senza alcun riguardo per la tanto declamata privacy, non in contraddizione con la carta costituzionale ma proprio in virtù di essa e con l’unanimità parlamentare.
Se, inizialmente, si era veduto il sorgere di reazioni xenofobe contro la “polmonite cinese”, istigate dalla propaganda leghista e fascista, in una seconda fase abbiamo assistito ad una “democratizzazione” del controllo e del nazionalismo, esibito coi tricolori appesi ai balconi. Infatti, come avviene in ogni regime poliziesco, si assiste all’attivazione dei meccanismi di delazione e di auto-polizia che vedono i cittadini più zelanti (e democratici) farsi sbirri volontari e spioni di altri cittadini, anche per risibili trasgressioni, interpretando e superando per rigore persino le direttive più restrittive emanate dal governo, in un clima a metà strada tra la caccia all’untore di manzoniana memoria e le anonime denunce alla Gestapo o alla Stasi nei confronti dei vicini di casa.
Inquietante, a riguardo, un recentissimo sondaggio tra gli ascoltatori – quanto meno progressisti, se non di sinistra – dell’emittente radiofonica fiorentina Controradio, in larga maggioranza favorevoli all’uso dei braccialetti elettronici per controllare che le persone restino segregate a casa.
Infine, va registrata la diffamazione e la criminalizzazione preventiva di eventuali sommovimenti indotti da precarietà economica e abitativa o per l’asfissiante oppressione poliziesca. Secondo l’immancabile rapporto dei servizi di intelligence, si preannuncia il “potenziale pericolo di rivolte e ribellioni, spontanee o organizzate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia dove l’economia sommersa e la capillare presenza della criminalità organizzata sono due dei principali fattori di rischio”, e la ministra dell’Interno ha fatto esplicito riferimento al “manifestarsi di focolai di espressione estremistica”, mentre la stampa paventa rischi di destabilizzazione dell’ordine pubblico ad opera di agenti di potenze straniere. Tutto secondo un copione già sperimentato per altri stati d’emergenza.
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